Durante la lotta al covid-19, riscopriamo il significato di abitare. Una “domesticità aumentata” dalla dimensione digitale, che ci connette costantemente con il mondo esterno. I nostri salotti diventano le nuove piazze, i nuovi cortili, le nuove strade della città virtuale. Ma quali sono gli effetti di questa condizione? E siamo in grado di sostenerli in futuro? Quali domande dobbiamo porci come architetti?
In Europa, le statistiche dimostrano che la superficie abitativa media per persona è di 42,56 m2, nonostante per Paesi Bassi, Francia e Germania i valori siano superiori. Più in generale, nei Paesi europei e nordamericani, la media si stabilizza intorno ai 35 m2 circa. Questi dati raccontano uno spazio dell’abitare che riflette le condizioni socio-economiche di una società definita dalle regole del mercato, un mercato che ha circoscritto non solo lo “spazio di manovra” dell’architettura, ma anche lo stesso modo di vivere ed abitare i luoghi.
Metri quadri che oggi, forse più di ieri, non rappresentano soltanto numeri, ma descrivono le situazioni abitative di un enorme segmento di popolazione, decifrando quantitativamente la qualità degli spazi domestici.
Conservare e migliorare l’abitare, rendendolo sempre più ospitale, efficiente e aperto
Queste le sapienti parole dell’architetto Franco Purini sul tema dell’abitare oggi, un tema discusso dall’architettura e dalle scienze sociali. Un dibattito aperto che si interroga su quali siano le esigenze contemporanee che lo formano e modellano, come siano cambiate rispetto al passato, quali evoluzioni, quali trasformazioni stiano avvenendo e quali debbano ancora avvenire.
Oggi, con la quarantena e l’isolamento forzato, questi dati sollevano una serie di domande pragmatiche, legate alla segregazione sociale causata dalla pandemia, che si interrogano sulla qualità degli ambienti abitativi in relazione ad emergenze simili e come questi siano (o no?) in grado di rispondere prontamente alle relative necessità.
Ci si chiede quale sia il ruolo dello “spazio virtuale”, quali siano gli effetti che questa “dimensione aggiunta” ed intangibile può generare sulle pratiche quotidiane. Effetti che si riscontrano nel cambiamento delle abitudini, dal semplice – oggi non più così semplice – atto di “fare la spesa” che avviene dal sofà in soggiorno, al concetto di “homeoffice” come unicuum, lo smart-working nel binomio casa-lavoro che non è più un tragitto, ma un luogo. Effetti leggibili nelle tendenze di mercato, che nell’ultimo mese mostrano un incremento esponenziale nell’offerta e nel download di nuove app che sperimentano forme di aggregazione virtuale alternativa per permettere, oltre all’interazione sociale, il decorso del “business as usual” dalla propria abitazione privata.
Ci si chiede, poi, quali siano i dispositivi che regolano l’intersezione tra l’ambiente domestico e quello digitale all’interno della “smart home”. Da personal computer e smartphone, a smart devices per il controllo dell’illuminazione degli ambienti domestici; fino ad arrivare agli smartspeaker, come vere e proprie appendici per l’organizzazione del quotidiano, da azioni più semplici come la gestione dell’agenda di lavoro, all’approvvigionamento delle risorse alimentari (se abbinati a frigoriferi altrettanto smart, capaci di misurare il livello del proprio contenuto).
Esempi, questi tra molti altri, che sovvertono il concetto di abitazione come ambiente chiuso ed introverso e che mostrano, in realtà, quanto l’abitare sia legato alla rete, a fattori di natura esterna. Uno spazio, quello della casa, che oggi più di ieri si sveste gradualmente dei propri veli, rivelando al mondo esterno parte dell’intimità: lo si vede alla smart tv, quando un invitato è in collegamento da remoto dalla propria abitazione e, al contempo, milioni di telespettatori lo possono osservare dalle proprie case; lo si vede sui social network, quando live e foto postate ritraggono momenti di assoluta domesticità con quinte sceniche insolite, la propria stanza da letto, il proprio salotto, la propria cucina; lo si vede, poi, quando datore di lavoro, dipendenti e clienti sono interlocutori di call visibilmente più informali, circondati da quello spazio così tanto familiare che è la propria dimora.
Smart? Quindi il cambiamento epocale di una società si può descrivere con un’unica parola?
D’altronde, lo diceva Balzac, lontano dall’essere architetto, “Rien ne ressemble moins à l’homme, que l’homme même”: nulla assomiglia meno all’uomo, che l’uomo stesso. E in effetti potrebbe aver ragione. Non sono forse la casa, gli oggetti, gli spazi, le abitudini con cui ci confrontiamo quotidianamente a raccontarci a nostra immagine e somiglianza e, più ampiamente, a riflettere i comportamenti di un’intera società? E il design, come progetto di soluzioni alle necessità, non ha dato da sempre una dimensione concreta al modo di vivere?
Eppure, sembra mancare qualcosa: l’uomo non è, forse, un animale sociale? E questa risposta tecnologica sarà davvero in grado di descriverci a lungo termine, una volta superata la pandemia?
Tornando all’inizio, “migliorare l’abitare, rendendolo sempre più ospitale”: siamo così sicuri che questa sia l’unica soluzione percorribile?
CREDITS
- Immagine copertina: Stop all’aggregazione sociale. L’ultima cena della serie “Spazi nascosti” dell’artista José Manuel Ballester